Cremona è sulla (auto) strada che da Brescia scende a Modena. La stiamo percorrendo, alle 12.30, mentre lo stomaco comincia a farsi sentire: languori e brontolii.
Visto che siamo saliti, poche ore prima, verso Brescia non è strano che si compia il percorso inverso.
Matisse ci ha tenuto compagnia per un paio d’ore, con la mostra allestita al Santa Giulia, una delle strutture del sistema museale di Brescia.
Nel titolo della mostra "Matisse e Michelangelo". Uno con le sue opere, Matisse, e l’altro come convitato di pietra.
Apprezzo la battuta involontaria, tra mè e mè, riflettendo sul suo lavoro di scultore.
A questo, infatti, si è ispirato Matisse nella sua ricerca, trentennale, dell’essenza della forma.
Una frase, di Matisse, mi ha colpito, tra quante accompagnavano l’allestimento.
Non posso citare alla lettera, mi limito a rammentarne il senso: “Quand’anche si facesse rotolare una statua di Michelangelo lungo una china, ciò che ne rimarrebbe dopo la frantumazione inevitabile di arti e dettagli, sarebbe comunque una forma inequivocabilmente riconducibile a Michelangelo!”
Nell’ultima sala ho scoperto che la sindrome di Stendhal è in agguato a qualsiasi età e in qualsiasi circostanza, quando si contempli il bello.
Di fronte ad un arazzo di Matisse, alla sintesi di bellezza e rigore che ne scaturisce, mi sono scoperto con gli occhi lucidi.
Un paio d’occhiali neri, sfacciatamente incongrui, salvaguardano i miei pudori e mi consentono la liberta della commozione.
Siamo di nuovo in macchina.
Una breve consultazione d’una guida. Ne taciamo il nome, sentendola un poco antagonista, ma ne sfruttiamo i consigli.
Un paio di telefonate per trovar posto ed oplà: si esce a Cremona e si prende la strada per Mantova. Una decina di kilometri dopo, Cicognolo.
Poche case sulla strada di scorrimento; altre, poche anche queste, attorno alla chiesa. Più oltre, una zona residenziale più ampia, che si giustifica solamente con la vicinanza di Cremona.
Qui, probabilmente, trovan rifugio cremonesi in fuga dalla città e con l’illusione della campagna.
Casettine basse, carine ed ordinate, un poco troppo basse ed ordinate per non sembrare anonime ad occhi estranei.
Tra queste un edificio un po’ più ampio, basso anch’esso come tutto quanto intorno: non si va oltre il primo piano, più frequentemente ci si ferma al piano terra, per non offendere la pianura circostante.
Più probabilmente, una scelta architettonica consentita dal basso costo del terreno edificabile e dal piano regolatore.
Cinico …ma non baro!
Una sala d’ingresso, due sale interne, qualche tavolo all’esterno sotto un bersò.
La giornata è calda, ed anche all’esterno le tavole son apparecchiate, quando non siano già occupate.
Tra dentro e fuori, almeno 100 posti.
Nuovo, ordinato (… e come potrebbe essere altrimenti), quasi che l’Osteria de L’Umbreleer fosse stata una vecchia insegna recuperata, altrove, all’abbandono.
Abbiamo conosciuto, nel corso del pranzo, l’Ombrellaio e, ad essere sinceri, non ha un’età che giustifichi il nome e la precedente professione.
Quando ancora si riparavano gli ombrelli, doveva essere un ragazzino coi calzoni corti!
E pur vero che, una volta, i calzoni corti si portavano sino ad adolescenza inoltrata.
Forse il padre, se non il nonno, potrebbero aver messo mano alle stecche di ombrelli neri, dal manico di pesante legno lucidato dall’uso e dal sebo …io, almeno, me li ricordo così!
Tovaglie candide, ben stirate, buon vasellame e posate di buona qualità, anche se di “lega” un poco pretenziosa.
Saltiamo gli antipasti ed ordiniamo, dopo una chiacchierata col titolare su quanto inserito nel menù, un bis composto da una lavagnetta con la polpa di scorfano e da gramigna con zucca e punte d’asparagi.
Il bis è per tre persone. Siamo in quattro, ma Grazia è a dieta e non possiamo che ammirarne l’abnegazione e la forza d’animo.
La nostra solidarietà è solo verbale, si ferma la limitare della comanda.
Mentre ordiniamo i secondi: due porzioni di luccio con polenta ed una di lumache in umido, Grazia convince l’Ombrellaio a farle una costata allo schiaffo con un contorno di verdure lessate.
Concluderemo poi il pasto con un’unica porzione di crema catalana, per quella golosa di mia moglie.
Calmiamo la sete con 3 bottiglie d’acqua ed una bottiglia di Lambrusco mantovano con l’etichetta dell’Osteria, ma prodotto ed imbottigliato da Angelo Miglioli di Viadana.
Mia moglie si è appuntata il nome del produttore. Le è piaciuto, evidentemente. L’ho trovato non male, di buona consistenza come i mantovani usano essere. I lambruschi, ovviamente e soprattutto quando confrontati con i modenesi. Sempre i lambrusche.
Spuma persistente e una leggera “abboccatura” che non sempre riesco a gradire.
Potrei dilungarmi ancora. Mi sforzo di essere conciso: la gramigna con zucca e punte d’asparagi è BUONISSIMA.
Peccato per le lavagnette col sugo di scorfano, buone anch’esse.
Ma poche minestre avrebbero retto il confronto con quella gramigna. La zucca ha la consistenza di una crema fluida che mantiene tutto il sapore della zucca: voglio dire che la fluidità non è ottenuta con l’aggiunta, incresciosa se proposta, di panna o con una sovrabbondanza di grassi di altra origine.
Si sposa benissimo con le punte d’asparago, anche per il contrasto di consistenze, pur mantenendo una nota dolce che, però, non ne appiattisce i diversi gusti.
Serviti senza formaggio a copertura, sono decisamente un piatto che unisce e distingue: grandissimo equilibrio.
Bravi!
Il luccio con polenta è una sorpresa. Vista la proposta di lambrusco mantovano, mi aspettavo un piatto in linea con i ricordi dei lucci mangiati nel mantovano. Invece no! Il luccio è a tranci consistenti, dalla polpa compatta, cosa che richiede, presumo, cotture distinte tra luccio e salsa di accompagnamento. Denuncio un limite: non sono riuscito ad individuare i componenti della salsa! Lo so, lo so: di cosa parli se non sai di cosa parli! Mi limito all’impressione, all’incidenza sul palato.
La polenta è morbida, sormontata dai tranci di luccio in “salsa”. L’insieme è gustosissimo, forse leggermente troppo sapido (per i miei gusti).
Francesca, mia moglie, mi dice un gran bene anche delle lumache. Non ho voluto assaggiarle per non sovrapporre i sapori. Con qualche rimpianto.
Grazia mangia con gusto la sua costata, di cottura media, come richiesto, ed accompagnata da verdure lessate con moderazione e, quindi, rispettose dei sapori.
La cosa che mi ha colpito, in generale, è la “misura” delle cotture, che denota, a mio avviso, un presidio costante dei fuochi e una padronanza di tecnica e materia prima di notevole livello.
Il giudizio sulla crema catalana l’ho richiesto a mia moglie: “ottima” mi ha detto.
Lo trasferisco tal quale.
Quattro caffè ci consentono di tenere per altri dieci minuti i gomiti sul tavolo, scambiando alcuni commenti al volo col titolare.
Devo dire che, quando mi ritrovo davanti ad uno chef o al titolare di un ristorante che, dai volumi e, per dirla con Matisse, dall’essenza delle linee del loro corpo, ti fan capire di essere i primi ad apprezzare la loro cucina, tendo ad essere “tranquillo”. Come in questo caso.
Paghiamo 104 euro, che fan 26 euro a testa, anche se dobbiamo ricordare che il pasto di Grazia si è limitato ad una bella costata ed al contorno di verdure lessate e, volendo, al caffè.
Il conto è assolutamente onesto. I ricarichi sui vini mi sembrano più che corretti: basti dire che la bottiglia di lambrusco è in conto a 10 euro!
Concludo il racconto con una citazione per i servizi igienici, puliti, ordinati e ben corredati di salviette e saponi.
Voto: almeno 4 cappelli.
Se ripasserò, anzi, quando ripasserò, mi concederò un pasto completo, dall’antipasto al dessert, per mettermi nelle condizioni di arrivare a 5 cappelli.
Sarei tentato già oggi, per la gramigna con la zucca e le punte d’asparagi, ma il “test” è troppo ridotto per indicare agli altri lettori di GM che l’esperienza sia “imperdibile”.
Consigliatissimo!!
[Reginalulu]
30/05/2011