Lunedì 20 settembre, a Brescia, per lavoro.
Una riunione breve, iniziata alle 19,15 e terminata, manco a dirlo, a tavola.
I nostri interlocutori sono, come sempre, molto ospitali.
Si danno da fare per far sì che i momenti conviviali non siano all'insegna del dejà vù.
Son molti anni che lavorano con l'azienda per la quale io lavoro. Ergo, hanno terminato i luoghi di cui si fidano per esperienza diretta.
Stasera siamo delle cavie. La condizione che prediligo.
Anch'io amo poco ripetere le esperienze gastronomiche, anche quando positive.
Questa vocazione alle “novità” si è tradotta in un grande “tradimento”. Sono di Modena e, o ma?, dopo diversi lustri di tortellini e tortelloni, di tagliatelle e di lasagne, confesso che non ne posso più. Nel senso che, ad esempio, uscire di casa per andare a mangiare tortellini, anche se buonissimi (per esperienza personale o per giuramento solenne di amici), mi coinvolge unicamente quando son certo che la compagnia sia estremamente stimolante: quando le ragioni sono lo stare assieme e non il cibo.
Lesa maestà? Tradimento delle origini? Palato annoiato?
Il ragionamento si fa complesso e troppo intimo. Andiamo oltre.
Il locale è d'angolo rispetto ad un vicolo rinascimentale che delimita ortogonalmente un ampio caseggiato …ma non sono un geometra!
I muri esterni, certamente rinfrescati da poco, sono dipinti con rappresentazioni d'epoca, quella che presumibilmente ha visto nascere il caseggiato e, per proprietà traslativa (ma si dice così?), anche l'Osteria. Questo è quello che paiono raccontarci. Addossati al muro, ci sono alcuni tavoli in legno e ferro, come in legno e ferro sono anche le seggiole a loro accostate, che mi fanno rimpiangere il fatto non ci siano 4-5 gradi in più, per poter cenare all'esterno e godere meglio la città, almeno un pezzo di città.
L'interno riprende le rappresentazioni di vita civile già anticipate all'esterno: ci son casari che maneggiano grandi forme di formaggio, sembra grana, e b'cher che insaccano salsicce, rifilano prosciutti e salano ritagli di carne.
Dubito che qui li abbiano mai chiamati b'cher. Le frasi in vernacolo che, a mo' di fumetto, agevolano la lettura delle immagini non mi lasciano dubbi: dal bresciano al modenese occorre un lavoro di traduzione.
Il tavolo mi lascia l'impressione d'essere tale da mettere in crisi anche traslocatori di professione, i facchini d'una volta. Legno solido e pesante.
A tavola ci lasciamo consigliare dall'oste. Non ha il naso rosso, ma ho deciso che sia lui l'Oste, quello con l'O maiuscola, il titolare dell'osteria.
Partiamo con un tagliere di affettati, selezionati da un convitato locale che opta per del culatello e del salame locale.
Il primo è buonissimo, non troppo secco, come spesso accade, ahimè, di sapore preciso, sapido e dolce in egual misura.
Il salame è, come dire, interessante dal punto di vista dell'etnos, azzardo.
Ha una circonferenza a metà strada tra un felino ed un milano, la macinatura della carne e la distribuzione del grasso lo avvicina maggiormente al felino, ma la dimensione dei “lardelli” è decisamente più omogenea.
Te lo servono a fette alte e morbide, e, visto la ricerca di un accreditamento dell'Osteria come luogo di mescita ma, anche, di contiguità con la norcineria e le pratiche di caseificazione, devo presumere che il taglio sia la summa di tante esperienze e, quindi, decisamente, caratteristico.
Per il sapore dolce e delicato mi ricorda molto il salame di Varzi.
Due dubbi: me lo ricordo bene? Che non sia proprio quello? Beh, no, dai, ci hanno detto “locale”!
Comunque, buono.
Poi ci siamo fatti convincere, oste oste, a prendere il piatto del giorno: tagliatelle ai funghi porcini.
Mangiabili, intendiamoci, ma senz'altro poco in linea con la vocazione “artigianale” dell'Osteria.
Le tagliatelle erano industriali e il sugo di funghi eccedeva nel burro perché la preparazione non prevedeva, io non me ne sono accorto, alcun altro legante.
Per fortuna non hanno ecceduto nel prezzemolo: poco e a foglie intere.
Come seconda portata siamo andati su una tagliata di puledro. Senza dubbio buona, ben cotta, cioè giustamente al sangue la parte interna ma con una “cordatura” di carne asciutta e ben cotta esternamente; il ché vuol dire che la cottura è avvenuta ad alta temperatura, procedura richiesta, come tutti sappiamo, per salvare i succhi all'interno.
Ma dei succhi, in sé, ce ne potremmo anche fregare, se non fosse che così facendo si salviamo anche i sapori e gli odori della carne, l'unico modo per valorizzare i caratteri di una carne rispetto ad un'altra.
Di contorno, patate al forno. Buone anch'esse: sentore di aglio e rosmarino senza eccessi, giusta cottura anche qui e, soprattutto, patate di buona pasta, il ché non guasta.
Abbiamo saltato i dolci: ci aspettava un viaggetto di un ora e mezzo e non volevamo tardare più del necessario.
Un caffè e, per alcuni, un ammazzacaffè.
Abbiamo pasteggiato con vini di Franciacorta, visto che Erbusco non è distante.
Un Franciacorta Saten Brut, a mo' di aperitivo, e due bottiglie di rosso, Curtefranca Doc. In sei, di cui uno astemio.
Una mezza bottiglia a testa. Non poco, non tanto. La testa più leggera, appena appena. Le gambe più pesanti, ma solo un poco.
Eravamo, ovviamente, ospiti, ma dalla carta ho ricostruito un costo a persona. Facendo bere anche chi non ha bevuto, ottengo un costo a testa di circa 47 euro.
L'ambiente, il vino e la cucina valgono, a mio parere, una media di tre cappelli. E' una media, ma abbastanza equilibrata.
Consigliato!
[golosona]
24/09/2010